Anteprima della monografia ALBERTO CUPIDO VITA D'ARTISTA

Alberto Cupido
Alberto Cupido

 

 

 

 

ALBERTO CUPIDO. SCHEDA BIOGRAFICA

(ASSOLUTAMENTE) NON CONVENZIONALE

           

 

 

            Chi è Alberto Cupido? Domanda che, solitamente riceve una risposta attraverso le biografie “ufficiali” che si possono leggere, principalmente, nelle ultime pagine dei programmi di sala di opere e concerti o nei fascicoli di accompagnamento di alcune pubblicazioni discografiche.

            Sin troppo facile, a questo punto, recitare o riportare la “semplice” storia che, inevitabilmente, inizia con: “Alberto Cupido ha esordito a…….”, oppure “Dopo gli studi musicali compiuti presso…….”, per citare solo due tra i possibili modi di iniziare a ripercorrere, in breve, l’itinerario artistico di qualsiasi musicista di fama.

            Ma in questa sede non possiamo permetterci di percorrere tale strada in modo banale. Per poter analizzare il percorso di un artista come Alberto Cupido e capire l’essenza dell’artista e dell’uomo bisogna, in questo caso come in pochi altri, trovare una diversa “chiave di lettura”.

            Innanzitutto ci si pone il problema di definire “……che tipo di voce è…….” Cupido.

La risposta, per l’addetto ai lavori, ma facilmente alla portata del semplice appassionato, è. “un tenore lirico”. Un intenditore particolarmente raffinato potrebbe dire che la sua reale vocazione è quella di “tenore lirico brillante” ma questo, forse, sarebbe un tantino riduttivo, per cui procediamo oltre in un’analisi più ragionata.

            La voce di Cupido è, in realtà, abbastanza difficile da catalogare nella sempre insufficiente casistica che si utilizza parlando di cantanti (e soprattutto di voci maschili).

Già dai suoi esordi, nel 1976 al Teatro Margherita di Genova in Madama Butterfly (reduce da due vittorie consecutive in altrettanti importanti concorsi di canto quali Parma nel 1975 e Busseto l’anno seguente) la voce, particolare e timbratissima, colpì fortemente addetti ai lavori, pubblico e critica lasciando capire con precisione caratteristiche che preludevano a possibili ampi sviluppi vocali, tecnici ed interpretativi, nonché di repertorio, puntualmente seguiti dall’artista nel corso della sua evoluzione.

            Se è vero che Alberto Cupido inizia la sua carriera con un repertorio di “pura” estrazione lirica (Madama Butterfly, Traviata, La Bohème, Lucia di Lammermoor con l’aggiunta di un “primo” Verdi a cui l’artista sarà sempre legato), repertorio che contribuisce fortemente alla sua piena maturazione tecnica ed interpretativa, ecco che poi che l’estensione naturale della voce ha come logico sviluppo il grande repertorio francese.

            Si badi bene che gli aggettivi “naturale” e “logico“, in questo caso, si riferiscono ad una evoluzione che tale è solo nella misura in cui l’intelligenza dell’artista gli permette di allargare progressivamente il suo repertorio senza usurare la voce ma, anzi, ponendo le basi del suo migliore utilizzo nel corso degli anni. Cosa che Alberto Cupido ha saputo ben fare dimostrando così grande intelligenza, lungimiranza ed estrema accortezza.

            Nel suo repertorio entrarono, quindi, i capolavori di Gounod - Faust e Roméo et Juliette - entrò un personaggio complesso ed insidioso come il Des Grieux della Manon di Massenet e, soprattutto, Werther.

Tutti “tasselli” di un complesso mosaico che Cupido è andato pazientemente e senza fretta componendo durante gli anni, veri e propri cardini su cui perfezionare, all’occorrenza ripensandola di volta in volta, la propria eccellente tecnica per varcare continuamente nuove frontiere del grande repertorio di ogni epoca.

            Un poco alla volta, nell’itinerario artistico di Cupido, compaiono titoli come Un Ballo in maschera, Adriana Lecouvreur, L’Africaine e Tosca - ruoli dalle diversissime caratteristiche ma inequivocabilmente accomunati da un livello di difficoltà tecnica ed interpretativa innegabilmente superiore, sintomo di una maturazione continua dell’artista. Il suo cammino, peraltro, prosegue con Andrea Chénier (opera che gli ha regalato, anche in tempi recenti, enormi successi), Cena delle beffe e, passando da Giordano ad altre due pietre miliari del Verismo come Mascagni e Leoncavallo, le inevitabili Cavalleria rusticana e Pagliacci.

            “Un tenore che ha cantato - e che canta - praticamente tutto…” verrebbe da dire. Forse, però, è meglio limitarsi a dire, più propriamente, “….un tenore che canta….”perché viene spontaneo porsi la domanda su come sia stato possibile che un tenore la cui voce si è caratterizzata, nel tempo, per la possibilità di affrontare una gamma insolitamente ampia di ruoli lirici abbia potuto, anche con un ampliamento graduale e particolarmente accorto del repertorio, impadronirsi di quei personaggi che appartengono di diritto al tenore lirico spinto senza pagare un prezzo molto alto dal punto di vista di un’usura vocale precoce.

            E’ un problema di scelte (in primo luogo) artistiche, si potrebbe dire. In fondo è ovvio che determinati ruoli possano esercitare un fascino irresistibile sull’artista spingendolo a superare ostacoli apparentemente insormontabili. Come non ricordare, ad esempio, un grande interprete del recente passato come il baritono Paolo Silveri? In un momento particolarmente felice della sua carriera (verso la fine degli anni ’50) l’attrazione per alcuni ruoli, si badi bene, di tenore, gli fece tentare - anche se per un breve periodo - il “grande salto”. Fu così che Paolo Silveri cantò da tenore niente meno che in Otello debuttando il ruolo, scusate se è poco, al Teatro dell'Opera di Dublino nel 1949. A quel tempo, si capisce, Silveri era un artista pienamente affermato, una vera e propria stella del pur ricchissimo panorama lirico del tempo e poteva, praticamente, permettersi tutto. Ma le registrazioni testimoniano di un “esperimento” condotto con grande professionalità e, soprattutto, con uno sconfinato amore per la musica e per quei personaggi (soprattutto Otello, ovviamente) che andò a studiare.

            Per tornare ad Alberto Cupido e chiudere il cerchio di questa analogia tra due artisti diversissimi ma con comuni caratteristiche per quanto attiene alla serietà di approccio alla propria professione, come possiamo contestare ad un artista il diritto di scegliere il repertorio in base a ciò che si ama cantare?

Ogni musicista sa bene (per esperienza) che il proprio repertorio sta, in qualche modo, scritto nel DNA, e che non c’è autore o brano troppo difficile se veramente si desidera con tutte le proprie forze suonarlo o cantarlo (posto, logicamente, di avere le basi tecniche opportune e quel tanto di intelligenza artistica da misurare continuamente i propri mezzi).

            Data tale premessa quali sono state le motivazioni del percorso artistico di Cupido? Il fascino dei ruoli, per così dire “spinti” non ha, senza dubbio, confini ed ecco che un Canio o un Turiddu acquistano, agli occhi dell’interprete, un’attrattiva pari, se non superiore a personaggi musicalmente più complessi ma emotivamente meno “accesi” quali un Rodolfo, un Edgardo o un Alfredo.

Ovviamente il problema - come si diceva poco sopra a proposito della capacità di misurare continuamente le proprie forze - sta proprio nel capire come cantare i ruoli che si collocano al limite delle possibilità vocali. Cantare, appunto, non urlare come, purtroppo, è accaduto a molti artisti che avrebbero fatto meglio a capire subito che il loro repertorio non era quello e che invece….ci hanno, spesso e volentieri, regalato un’immagine molto distorta di come vada cantato il repertorio verista.

            Cupido, in realtà, non ha mai neppure rischiato simili nefandezze nel corso della sua carriera ma ha proceduto con accortezza anche quando sembrava rischiare affrontando un personaggio come Cavaradossi al culmine della carriera e con una vasta esperienza di ruoli lirici.

            Si sa, quando c’è il nome e l’esperienza uno scivolone, anche fatto con le migliori intenzioni, può far molto male e segnare l’inizio di un malinconico tramonto. Ebbene No. Anche in quel caso, la decisione di spingersi sempre oltre Cupido la prese con cognizione di causa compiendo un ulteriore passo nel suo cammino artistico con naturalezza, quasi a voler sottolineare la verità apparentemente lapalissiana che, presto o tardi, un vero artista deve “cantare tutto”. Ma è poi vero ciò? Tanti, anzi la maggior parte dei tenori lirici che hanno tentato questo salto hanno dovuto pagare un prezzo veramente molto (talora troppo) alto a meno di non avere una tecnica straordinaria costruita ed affinata con pazienza e dedizione.

            E la dedizione che ha permesso ad Alberto Cupido di costruire la propria tecnica straordinaria è nata e cresciuta nel segno del primo Verdi e del repertorio francese, come si diceva all‘inizio di questo capitolo. E una volta affinata e portata a completa maturazione la sua tecnica, egli l’ha usata nel più saggio dei modi: dosando le forze e scegliendo con cura. Cosa? Semplice: i ruoli che, a quel punto avrebbero distrutto un cantante con un diverso - e meno forte - background, ovvero: Canio, Turiddu, Riccardo e Andrea Chénier, tanto per cominciare.

            Cantare sempre, con la propria voce (una voce indubbiamente bella e duttile per dono di natura), senza forzare ma approfittando di tutte le proprie risorse tecniche ed interpretative per “far uscire” la musica, per “far musica” e “fare teatro” con naturalezza, conferendo un’impronta di estrema autenticità e di “onestà intellettuale” ai personaggi che interpreta.

Se si vuole cercare un equivalente a Cupido nel campo direttoriale bisogna cercare tra quei grandi maestri del podio per i quali ciò che si dirige è soprattutto “grande musica” da studiare, capire ed eseguire con amore, cura per  dettagli e “gioia di esserci”, lasciandosi dietro ogni schema preconcetto ed anche, se troppo ingombrante, la tradizione interpretativa. Vengono in mente, in ordine grossolanamente cronologico, nomi come quelli di Carl Schuricht, Josef Krips, Rafael Kubelik, Leonard Bernstein, Claudio Abbado, Gunther Wand, Philippe Herreweghe  e molti (per fortuna) altri grandi del passato e del presente.

            “Un tenore che canta” ebbe a definire Alberto Cupido il musicologo nonché grande amico e collega (e strepitoso conoscitore di voci) Michele Corradi. Non posso che sottoscrivere oggi quella definizione consegnandola a queste pagine (che, in origine, lui avrebbe dovuto curare) come la definizione più efficace tra tutte quelle ipotizzabili con una sola, possibile, variante (da non usare in alternativa ma, caso mai, in aggiunta) “un tenore che fa musica”.

E di musica Cupido ne ha fatta e ne fa veramente tanta potendo ormai vantare un vasto repertorio di oltre sessanta opere che lo hanno sempre visto imprimere ai personaggi interpretati tutta l’autenticità e l’umanità possibili attraverso uno studio approfondito ed un‘immedesimazione totale che prescindono dal fatto che il ruolo sia, o meno, del cosiddetto “grande repertorio”.

            Così, se un Alfredo ci appare, attraverso Cupido, in una luce più matura nel tormento della disperazione per il suo amore senza futuro, se anche di un Canio egli ci fa cogliere il dolore intimo e straziante più che la sete di vendetta, proprio nei giorni in cui vedono la luce queste righe Cupido “esplora” un nuovo ed affascinante personaggio: Cloriviére della Marie Victoire di Ottorino Respighi (opera del 1915, sino ad oggi mai rappresentata e “ripescata” dal Teatro dell’Opera di Roma nel 2004 dopo un oblio di quasi 90 anni), un nobile parigino lealista ma anche vizioso donnaiolo il quale, in prigionia nel periodo della rivoluzione francese, seduce una vecchia amica d’infanzia (sposata) dalla quale avrà pure un figlio.             Ebbene di questo ruolo solo apparentemente scontato (perché in realtà nello svolgersi degli eventi il personaggio prenderà coscienza delle sue responsabilità e del mondo che lo circonda sino a giungere alla determinazione di uccidersi dopo essersi autoaccusato di un attentato a Naopoleone) Cupido, per questa “Prima” mondiale ha saputo cogliere i lati più belli restituendoci addirittura l’immagine efficacissima di un eroe “moderno” travagliato, anzi attanagliato dall’intrecciarsi delle sue passioni umane (l’amore per Marie Victoire, ovvero una donna la quale, comunque non gli appartiene) e politiche (la fedeltà alla monarchia ormai caduta sotto l’impeto della rivoluzione) e che risolve la sua esistenza in un atto tragicamente autodistruttivo ma cosciente, deliberato e, in fondo, coerente che segna profondamente tutto il finale dell’opera stessa.

            E la coerenza, per concludere, è un tratto distintivo che l’interprete può ben dare a qualunque suo personaggio solo ne possiede per amministrare il suo modo di essere artista ed uomo di teatro.

E di coerenza (umana ed artistica) Alberto Cupido, possiamo dire, ha sempre dimostrato di averne da vendere.

 

 

ALBERTO CUPIDO ALLO SPECCHIO. L’ARTISTA SI RACCONTA (2004)

 

D. Uno dei tuoi maggiori successi nella Stagione 2003-2004 del Teatro dell’Opera di Roma è stata Marie Victoire di Ottorino Respighi.

Opera dimenticata e “riscoperta” non senza un grande lavoro di preparazione ed allestimento vista la difficoltà. Un’esperienza interessante anche per un cantante come te che nell’arco della tua carriera non hai mai “cristallizzato” il proprio repertorio riducendolo nel tempo.

R. Marie Victoire  è arrivata dopo una serie di impegni importantissimi ad inizio Stagione: un’Aida a Tokyo in Settembre, una Turandot ad Amburgo ed un Gala di Carmen a Mannheim. Questo lavoro di Respighi – scelto dall’Opera di Roma per l’inaugurazione della Stagione 2004 - ha una storia, a dire il vero abbastanza particolare. E’ del 1913. L’Opera di Roma cercò di portarla in scena, in prima mondiale, nel 1915 ma l’operazione naufragò a causa dell’imminenza degli eventi bellici. Quali difficoltà poterono subentrare, in quel difficile momento storico, possiamo solo immaginarlo. Meno comprensibile il fatto che Marie Victoire sia, da allora, caduta completamente nel dimenticatoio. Certamente, ora che il velo di oblio si è squarciato capiamo che essa presenta numerose particolarità che potrebbero addirittura aver contribuito a determinarne la messa da parte.

 

D. Quali, secondo te?

R. Probabilmente il libretto (del commediografo Edmond Guiraud) che tratta un argomento assai scabroso anche per una vicenda ambientata al tempo della rivoluzione francese. Una trama che potrebbe aver parzialmente scoraggiato, per la complessità morale e dei valori in gioco, chi dovette valutare se portare in scena l’opera o lasciar comunque perdere al sopraggiungere di varie difficoltà ma anche il linguaggio musicale, particolarmente ardito ed evidentemente influenzato dall’impressionismo o, comunque, dalla scarsa propensione di Respighi per il genere operistico che alla fine scoraggiò soprattutto l’Autore stesso dal voler dare troppo risalto ad un lavoro i cui principi costruttivi (musicali e drammaturgici) erano da considerare troppo avanzati.

 

D. Il tuo personaggio, comunque, è, di fatto, il vero e più importante protagonista

R. E’ fondamentale per lo svolgersi della vicenda. Si tratta di un nobile lealista di nome Cloriviére. Un libertino, dissoluto e vizioso ma, da sempre, innamorato di Marie Victoire. Quando i due si trovano prigionieri insieme al tempo del terrore giacobino lui la corteggia disperatamente (entrambi pensano che saranno giustiziati) e lei (pur sposata) cede alle sue brame. C’è un epilogo complesso ed inaspettato quando il gruppo di nobili prigionieri viene graziato. Passa del tempo, dalla relazione tra Cloriviere e Marie Victoire è addirittura nato un figlio ma lei ha ritrovato il marito e a Cloriviére, eroe “moderno”, tormentato dalle proprie passioni umane (l’amore per una donna che non gli appartiene) e politiche (la fedeltà alla monarchia) non resta altra via d’uscita che il suicidio. Atto disperato ma coerente e deliberato che segna tutta l’ultima parte dell’opera. Un gesto attuato con lucida determinazione che, proprio per questo, lo distingue dagli altri protagonisti i quali, chi per un verso chi per l’altro, troveranno una loro strada per sopravvivere nell’incerto futuro che va delineandosi.

 

D. Dopo Marie Victoire che, voglio ricordare, è stata per te un importante successo personale nella Stagione 2004, quali sono stati gli appuntamenti più immediati?

R. Simone Boccanegra a Genova e Carmen ad Amburgo.

D. Il dato che emerge da quanto ci hai detto è quello che, del resto, abbiamo puntualizzato, in varie occasioni a proposito della tua attività, ovverosia il fatto che appartieni a quella cerchia di artisti che, pur raggiunta una grande notorietà internazionale (hai festeggiato i 25 anni di carriera con un concerto al Teatro Carlo Felice nel Gennaio 2003) non si stancano mai di allargare il proprio repertorio esplorando nuovi orizzonti.

R.  Ci sono due modi di affrontare questo lavoro. Tracciare un proprio percorso artistico, definirlo e continuare sempre a ripercorrerlo, magari trovando sempre nuove soluzioni interpretative, nuovi punti di vista riguardo personaggi già studiatI ed eseguiti., oppure affrontarne di nuovi ampliando sempre il proprio repertorio. Questa ottica è, per me, decisamente quella più stimolante ed interessante perché introduce nel lavoro quotidiano un concetto assai più profondo ed interessante di sfida con se stessi e con la professione. E’ un modo di restare giovani più a lungo, di conoscere cose nuove…Io, per esempio, ho fatto probabilmente duecento Bohéme. Per quanto tu possa aggiungere sempre qualcosa ad un’interpretazione, oltre un certo limite, oltre le cose migliori che puoi sentire di aver dato a quel personaggio non puoi proprio andare. Lì arriva l’esigenza di andare oltre e,  a quel punto, devi aprirti ad altri orizzonti.

 

D. E c’è tanta bella musica ingiustamente dimenticata……….

R. C’è, per esempio, tutto il repertorio a cavallo tra Ottocento e Novecento. Molte opere di Zandonai ed altri grandi; alcune di queste io le ho fatte: Giulietta e Romeo, Amore dei tre Re, Cena della beffe, La Cassandra di Vittorio Gnecchi (su cui ci fu una battaglia legale tra l’autore e Richard Strauss riguardo il plagio di alcune pagine che finirono nell’Elektra). Poi, ancora, Siberia di Giordano, Germania di Franchetti e via dicendo. E’ un repertorio di pura vocalità verista dove ti puoi esprimere tranquillamente in quel “solco” ma, comunque, scopri altri autori – o altre musiche di autori ben noti – soprattutto nuova musica e, quindi, nuove emozioni.

 

D. Che tipo di vocalità e questa? Te lo chiedo dal punto di vista dell’approccio allo studio.

R. Posso parlare per me, ovviamente ma penso che quando hai affrontato tutto quello che ho io cantato puoi, praticamente, fare qualsiasi cosa. Forse l’opera tedesca  potrebbe creare dei problemi ma il repertorio italiano e quello francese assolutamente no.. Tutto ciò che si addice ad un tenore lirico quale io sono deve essere assolutamente alla portata di un approccio tranquillo.

 

D. Nel corso della carriera tu sei passato e passi con estrema disinvoltura dal belcanto al verismo. Questo è frutto di doti naturali particolarmente ben amministrate o di uno studio intenso?

R- Penso che questo sia stato possibile per aver impostato la mia vocalità, dal punto di vista tecnico, su alcuni capisaldi il cui studio e la cui assidua frequentazione mi sono serviti per allargare progressivamente il repertorio, ampliare la tecnica ed avere i mezzi per sviluppare le capacità interpretative. Queste opere sono state Lucia di Lammermoor, Manon d Massenet e la Bohéme. Prime esperienze che, ripeto, sono state le basi della mia vocalità; le fondamenta su cui costruire tutto quanto è venuto dopo……In seguito si tratta solamente di trovare un suono più generoso; ma questo viene con il tempo e con l’esperienza, quando la voce, inevitabilmente, si scurisce un poco. Ovvio che un giovane abbia la voce più chiara. Un cantante più maturo lo riconosci da quel certo “velluto” che la voce prende con il tempo.